PREFAZIONE [di ANÚTILI E AMMÀTULA¹] DELL’AUTORE

I lettori di REFERTI ANORMALI (o SEPOLCRALI) – la mia seconda silloge di poesie – sanno che non considero l’italiano mia madrelingua, e conoscono anche la mia affermazione: «Io penso in dialetto, quando mi esprimo in italiano sono costretto a tradurre.»
A ciò mi premuro di aggiungere: «In una favella per me innaturale ed estranea, ergo ostica e, quello che maggiormente conta, assai poco comunicativa.»
Se nessuna lingua è in grado – come in effetti non lo è – di rendere fedelmente l’universo interiore del parlante (la verbalità non è un fatto naturale), funzione dell’idioma è quella di significare nel modo meno artefatto possibile – tuttavia pur sempre artefatto – il pensiero; a tale compito sono inadatte le lingue impantanate nelle grammatiche – imposte e calate dall’alto “da cardinali grammatici” (Foscolo) a coloro che a tale bavaglio comunicativo avevano involontariamente ed inevitabilmente fornito le basi, consistenti nelle ordinarie relazioni sociali quotidiane –, si presta invece in qualche modo la parlata appresa fin dagli inizi dell’esistenza di ognuno (la lingua della nutrice di dantesca memoria).
Ampliando il discorso, parlando piú in generale per comprendere quanto determinante sia la padronanza di una favella e quanto, per converso, risultino esiziali le museruole linguistiche, si pensi di quale immensità l’umanità sarebbe priva se – tanto per non scomodare grossi nomi – Socrate, Platone e Aristotele fossero stati costretti ad esprimersi, poniamo, in uno dei numerosi dialetti dell’India d’oggidí, o – sempre per volare basso – se Freud avesse dovuto, per un qualsivoglia motivo, scrivere la sua impagabile (pur controversa) opera nel sermone di qualche sperduto villaggio sudamericano.
Fin qui i motivi oggettivi che mi inducono ad utilizzare il mio dialetto; ma l’aver – sopra – menzionato Dante, mi torna utile per soggiungerne un altro che concerne la sensibilità ed il gusto di chi scrive, il quale non ha mai reputato convincenti le tesi di coloro che giustificano, o nel corso dei secoli hanno giustificato, il ruolo del fiorentino o toscano-fiorentino – la sua presunta superiorità – come idioma di riferimento per la lingua nazionale; pur dichiarandomi estimatore dei trecentisti (in un testo del presente libro “gioco” con Boccaccio), non li ho mai ritenuti altro che ottimi poeti o prosatori della letteratura fiorentina (o toscano-fiorentina), al pari di altri apprezzati autori che nei secoli hanno prodotto quella ricchezza che è la letteratura dei vari dialetti della nazione.
Si è detto della non proprio disprezzabile idoneità della lingua della nutrice a manifestare il sentire del soggetto; un ulteriore, ultimo, passo in tale direzione è rappresentato dall’idioletto; esso è il linguaggio piú vicino – anzi meno lontano – a quello endofasico, ma esso, proprio per l’appartenere ad un solo individuo, ha scarse possibilità di essere correttamente inteso dall’uditore o dal lettore; quanto all’endofasia – sola essenza del verbo – è ovvio, per definizione stessa, che non può che rimanere incarcerata all’interno del singolo; pertanto la comunicazione è impossibile.
Però, a ben vedere, l’esigenza comunicativa – la trasmissione esatta dell’interiorità di chi si avvale del mezzo espressivo – checché se ne dica, non può riguardare l’arte, ossia la prova della tara del “creato”, ché non si manipola (e l’arte ha questo ufficio, a meno di non scadere nell’artigianato) ciò che è perfetto. La costruzione di un’opera d’arte letteraria (e vale per ogni altra manifestazione artistica) è perenne perplessità, dissidio, estenuante ricerca dell’inaudito e dell’inusitato; è stravolgimento – il soppiantare – volontario proprio di quelle naturali “parole” patrimonio irrinunciabile dell’endofasia, tanto irrinunciabile da identificarsi con essa (e ciò avviene anche quando la creazione artistica è dettata dalla cosiddetta “illuminazione”, la quale, in tale caso, è alla base del processo): riappare cosí l’arte come “fuga dal mondo”, in quella particolare accezione dell’espressione, comparente nella presentazione dei REFERTI ANORMALI (o SEPOLCRALI).
Per questo sono lieto di informare che ho fallito nel mio intento: quello, se non di rappresentare il linguaggio naturale, interno – di per sé inesprimibile, come si è visto –, almeno di pormi timidamente nell’orbita di esso, tramite il mio dialetto (l’eoliano) – l’idioma che utilizzo di norma per parlare di Nietzsche, Rimbaud…, di argomenti scientifici o di quotidianità varia: insomma la mia lingua, l’unica che conosco in modo sufficiente per farmi intendere –; perché il dialetto di ANÚTILI E AMMÀTULA in realtà non è il mio, vale a dire quello corrente, in quanto cimentandosi in un’ideazione letteraria e non in un saggio filosofico, si rientra chiaramente nel campo dell’arte e dell’immancabile corollario di essa suesposto; ecco allora un lessico dialettale intriso di arcaismi e di forme desuete, del quale si dice nella presentazione e nella quarta di copertina².

¹Espressione ormai poco usata, della quale una possibile traduzione è: (È) INUTILE, STIAMO FRESCHI; anche utilizzati separatamente i due termini esprimono il  medesimo concetto: insieme lo rafforzano.

 ²I  metodi  dell’indagine  lessicale volta  all’individuazione  ed  al  recupero di  voci dialettali arcaiche, sono illustrate nella RELAZIONE DI PRESENTAZIONE ALLA GIURIA DEL PREMIO LETTERARIO ELIO VITTORINI, edizione 2010.  
 
 
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