RELAZIONE DI PRESENTAZIONE DI ANÚTILI E AMMÀTULA

 ― POI RISULTATA VINCITRICE DELLA SEZIONE RICERCA ETNO-ANTROPOLOGICA ― ALLA GIURIA DEL PREMIO LETTERARIO ELIO VITTORINI, IN CUI SONO DESCRITTI I METODI DELL’INDAGINE LESSICALE VOLTA ALL’INDIVIDUAZIONE ED AL RECUPERO DI VOCI DIALETTALI ARCAICHE.

Aula Magna dell’Università di Messina, 11 novembre 2010.

Il dialetto eoliano – secondo la classificazione dei sistemi dialettali italiani dell’italianista, peraltro siciliano, Stefano Lanuzza – è una delle sei grandi branche in cui si divide l’idioma trinacrio, insieme con il siciliano occidentale, il siciliano centrale, il sudorientale, il messinese ed il pantesco (isola di Pantelleria).

Si tratta di un codice linguistico sconosciuto all’orizzonte letterario e questo non è il solo elemento – e nemmeno il principale – a renderlo inusitato, in quanto esso non è quello corrente, udibile oggidí nelle sette isole dell’arcipelago eoliano, bensí l’arcaico: frutto di anni di ricerca pertinace e scavo linguistico.

Ciò rende problematica la comprensione dei versi agli stessi Eoliani e sovente inintelligibili alle generazioni piú giovani.

È un’operazione condotta tanto per la volontà di recuperare espressioni estromesse dalla comunicazione quotidiana dalla datata consuetudine di dialettizzare l’italiano, quanto per la convinzione che plasmare un’opera letteraria (ed una creazione artistica in genere) significhi incessante ed estenuante ricerca, proprio di quell’inaudito ed inusitato di cui si è testé fatto fugacemente parola, e di cui riferisco con maggiore ampiezza nella prefazione di ANÚTILI E AMMÀTULA.

Per ciò che concerne le fonti dei racconti, esse sono costituite in prevalenza dalla tradizione orale – ed in essa ho ritenuto di dover fare rientrare una favola del controverso filone esopico –: un’aneddotica tramandata di generazione in generazione, al punto che sovente i miei informatori (gli anziani Eoliani) non sono testimoni diretti dei fatti, bensí li hanno a loro volta uditi da chi li sopravanzava negli anni, un caso esemplificativo di ciò è la notizia che ha generato il testo di apertura (il quale poi sulla base di quella – al pari degli altri scritti – è stato da me liberamente elaborato), fedelmente riportata in calce alla narrazione, che ho appresa da un ultranovantenne deceduto il 1986, il quale la conobbe dalla bocca degli avi. Trovano inoltre spazio in ANÚTILI E AMMÀTULA adattamenti in eoliano di classici della letteratura internazionale: Alfieri, Baudelaire, Boccaccio, Esopo (testé menzionato), Rimbaud.

Al fine dell’acquisizione degli elementi lessicali, avendoli in larga parte appresi attraverso la profittevole personalmente condotta investigazione linguistica inghirlandata dal “metodo della madeleine” (si veda oltre), di limitata utilità sono risultati due lavori specialistici: quello di Franco Fanciullo (DIALETTO E CULTURA MATERIALE ALLE ISOLE EOLIE, 1979, edito dal CENTRO DI STUDI FILOLOGICI E LINGUISTICI SICILIANI – PALERMO), e l’altro d’identico orientamento, condotto dal filologo elvetico Hans Coray nel 1929 (pubblicato dalla rivista VOLKSTUM UND KULTUR DER ROMANEN) e del quale l’opera di Fanciullo costituisce una rivisitazione.

Oltre a ciò, pur rivelandosi doveroso riconoscere ai due studiosi il rigore scientifico il quale ha informato le rispettive indagini, i risultati ottenuti – pur lodevoli – dimostrano che in materia linguistica, qualsivoglia analisi esterna, eseguita cioè da soggetti che, per quanto autorevoli e competenti, sono estranei a quell’organismo vivente che è un qualsiasi idioma non estinto (e difficilmente un idioma è davvero estinto), inadatti pertanto a coglierne e men che meno a renderne le infinite sfumature delle affascinanti strutture – e ciò è vero a fortiori per una favella priva di tradizione letteraria e quindi perennemente, sublimemente!, pregrammaticale –, non può produrre esito differente da quello ottenuto, per usare una metafora biochimica, quando il materiale biologico è esaminato in provetta: i dati risultano certamente obiettivi, ma la loro funzione è diversa da quella di indicarci la fisiologia – il funzionamento – dell’organismo dal quale il campione proviene.

Decisamente trascurabili ho trovato poi altri lavori da me consultati, dei quali – differenti, in verità, per mole, impegno, rigore ed anche finalità, dai due sopra menzionati – non ritengo si possa asserire che abbiano ufficio granché dissomigliante di quello di rappresentare un ‘attentato’ all’ortofonia dell’eoliano (di ortografia, al contrario, ha evidentemente poco senso discutere per un sermone pressoché esclusivamente orale), riproducendone un ritratto alterato – una errata trascrizione fonica –, zeppo di suoni propri di altre varietà di siciliano. Se in questa sede ne faccio parola è solamente per far palese come, per taluni, l’entrare in casa altrui in punta di piedi sia un’opzione presa in scarsa considerazione.

Restando in tema di bibliografia, non è possibile tralasciare la monumentale opera ottocentesca dell’apprezzato linguista e, soprattutto, etnografo Luigi Salvatore d’Austria: figlio di Leopoldo II di Asburgo Lorena, granduca di Toscana, e nipote di Francesco I re delle Due Sicilie, Luigi Salvatore – autore di minuziose descrizioni della geografia, degli usi e dei costumi di parecchie isole “minori” e centri rivieraschi del Mediterraneo – dedicò alle Eolie un’opera di ben otto volumi (uno per ciascuna isola, piú uno generale, pubblicati a Praga fra il 1893 ed il 1896), la quale – avente il titolo DIE LIPARISCHEN INSELN – influí decisamente sugli studi eoliani successivi, tanto che sia Coray sia Fanciullo ne fanno sovente riferimento. Tuttavia della benemerente fatica dell’Arciduca ho potuto trarre soltanto tre vocaboli a me non già noti, i quali fanno parte di una oltremodo striminzita lista di voci in uso alle Eolie che Luigi Salvatore (il quale fu amico del Pitré, mi riesce gradito lumeggiarlo) compilò.

Giungiamo, allora, infine, alla sorgente piú cospicua da cui proviene il vocabolario arcaico che ha costituito la materia prima per la realizzazione del mio libro: i rari parlanti ed “ex parlanti” (sarà chiaro piú avanti l’uso di tale espressione): gli anziani abitatori dei luoghi foresi di ciascuna isola – con larga preferenza accordata a Quattropani (frazione a nord-ovest dell’isola di Lipari), in quanto centro abitato eoliano di una certa rilevanza piú distante dal mare, o, meglio, da un approdo portuale, ergo nucleo in cui la parlata risulta meno contaminata dai contatti con gli alloglotti (nel senso etimologico) –, e gli oriundi discendenti dagli Eoliani che a ondate successive lasciarono la terra natia in tempi piú o meno lontani per cercare ventura in America settentrionale o in Oceania; ho cercato di entrare in contatto con entrambi i gruppi in maniera meno invadente possibile, per far sí che le loro espressioni non fossero in qualche modo condizionate dal ruolo di “documento ufficiale”, anche se non di rado hanno pazientemente sopportato le mie interviste, se non i miei “interrogatori”.

I dialetti dei due detti gruppi di eolianofoni non risultano esattamente sovrapponibili: i secondi – vale a dire gli oriundi – conservano ed esibiscono un patrimonio lessicale maggiormente datato, in quanto prescindente dall’anagrafe dei parlanti; questi, non insolitamente giovanissimi, lo hanno mantenuto pressoché intatto generazione dopo generazione, cosicché la loro espressione è fondamentalmente quella dei primi emigranti, e, se in linguistica il concetto di ‘purezza’ non fosse una semi-eresia, tale idioma si potrebbe definire ‘puro’.

In sostanza, ciò è possibile in quanto la trasmissione del sermone patrio è da sempre avvenuta in maniera – per rendere l’idea – non particolarmente dissimile da quella in cui nei nostri licei si insegnano le lingue cosiddette – non del tutto a ragione – ‘morte’: sistemi chiusi, immuni oramai dall’influsso della favella pulsante nelle corde vocali dei suoi quotidiani fruitori.

Ciò, per quanto apparentemente paradossale, è stato reso possibile dal fatto che per i primi giunti dalle Eolie, l’anglofonia costituí una cortina impenetrabile: essi, quasi esclusivamente, o esclusivamente, dialettofoni (non si dimentichi che l’italiano cominciò a divenire, timidamente, lingua della comunicazione quotidiana, solamente con la diffusione dei media parlati [per i quali purtroppo, furono copiosa fonte le manzonate ottocentesche]), applicarono istintivamente due codici linguistici paralleli: uno interno – ovviamente il dialetto – e l’altro che serviva per farsi intendere – molto grossolanamente, come è intuibile – dalla popolazione locale, costituito da un numero assai esiguo di vocaboli inglesi appresi ed accozzati con notevole fatica; è essenziale ribadire il concetto di parallelismo, in quanto i due linguaggi risultarono immiscibili e non si influenzarono giammai seriamente: non ci fu mai un vero e proprio incontro fra dialetto ed inglese, perché questo fu sentito come totalmente altro dalle comunità eoliane, le quali non gli permisero di accomodarsi tra le pareti domestiche; quando in apparenza l’incontro ebbe luogo, si trattò in realtà di uno scontro traumatico di materiali linguistici eoliani ed inglesi, il quale generò mostri linguistici – di suono assai spassoso per gli orecchi dei compaesani rimasti nella terra natia – dei quali faccio parola a pag. 126 del mio libro, ossia nell’introduzione al glossario (ivi pertanto rimando), ed i quali sono, con ogni probabilità, la prova maggiormente tangibile della refrattarietà di quegli Eoliani verso la lingua del luogo: i vocaboli cosí nati dialettizzando l’inglese, sono una caricatura lessicale, spropositatamente vistosi per passare inosservati, e potrebbero essere forse valutati piú come un terzo codice che come una vera e propria osmosi linguistica anglo-eoliana.

Col tempo, a mano a mano che i discendenti dei primi emigranti andavano sempre piú radicandosi in quei siti, fino a diventarne parte integrante, come odiernamente sono a tutti gli effetti, il dialetto delle Lipari muta decisamente il suo ruolo: per i sunnominati posteri, cosí come l’arcipelago tirrenico non è piú motivo di nostalgia lacerante, bensí rappresenta la memoria delle origini, anche l’antica madrelingua – per loro che adesso parlano correntemente l’inglese e male o per nulla l’italiano – diviene mero elemento culturale, reliquia linguistica da custodire gelosamente, trasformandosi, dunque, da parlata plebea a idioma elitario; quel medesimo idioma – ribadisco – che per essere stato catapultato e trapiantato in un tessuto incompatibile e rigettante, ha interrotto quel naturale percorso che è l’evolversi delle lingue, a quell’altezza cronologica; la qual cosa è per noi, oggi, fonte preziosa di analisi e riproposizione, sulla scia di un itinerario di archeologia linguistica: in ultima analisi, si può asserire che l’immiscibilità linguistica di cui sopra, ha rappresentato per il dialetto delle Lipari, ciò che le ceneri vesuviane furono per la Pompei romana: ce lo ha serbato intatto.

Tutt’altro che trascurabile, tuttavia, l’apporto fornito alla mia ricerca, dagli appartenenti all’altro gruppo di arcaico-eolianofoni: gli anziani tuttora residenti nelle plaghe foresi dell’arcipelago; costoro parlano un dialetto sufficientemente desueto per poter essere riconosciuto come familiare dai giovani e dai giovanissimi, benché tale vetustà non risalga – a differenza di quella degli oriundi, come si è appena visto – oltre la carta d’identità dei parlanti, in quanto questi si limitano a continuare ad esprimersi con il vocabolario che appresero quando esso era quello corrente, agevolati nel mantenerlo in buono stato dalla perifericità geografica. Nondimeno, dal momento che periferia non coincide con anacoretismo, il contatto – seppur attenuato – con la modernità ed i potenti mezzi di cui questa dispone per propagarsi, ha fatto sí che una quota fisiologica di quel lessico sia stata inconsapevolmente accantonata: detto altrimenti il naturale sviluppo ingenito negli idiomi, che, per le particolari vicende descritte, fu negato all’eoliano d’oltreoceani, è stato parzialmente possibile a quello “marginale” che non si è mosso dall’arcipelago; ecco allora che per la ferma volontà di ottimizzare la mia indagine, mi sono industriato al fine di scovare tali parole invisibili, avvalendomi di un metodo non dissimile da quello noto agli estimatori di Proust e della sua madeleine, ossia della cosiddetta memoria involontaria: ho posto ai miei collaborativi interlocutori, domande riguardanti il loro passato lontano: la figura della maestra, le ramanzine del parroco, i castighi paterni, il pranzo di Natale dai nonni, il giorno del fidanzamento…; allora i ricordi affiorano inestricabilmente congiunti con il loro contesto, operando come una traslazione in toto alla data drammatica, all’epoca cioè di quando i fatti si svolsero: ed ecco che sui volti e nei gesti dei narranti si leggono gli stessi stati d’animo, le medesime emozioni di quando quelle rimembranze furono vita vissuta; non può pertanto essere ritenuto sorprendente che in tale “percorso orfico”, la descrizione dei raccontatori risulti impinguata di parole improvvisamente evase dal carcere dell’oblio in cui cumuli di calendari le avevano scaraventate: le parole correnti nel periodo degli avvenimenti narrati; un fenomeno il quale talora si manifesta soltanto come un baluginio acustico: significanti che inopinatamente ‘schizzano’ dai sotterranei della memoria agli organi del linguaggio articolato, sottraendosi al vaglio dell’io cosciente.

Ed i primi ad esprimere viva soddisfazione per il riacquisto – registro con piacere – sono proprio i miei interlocutori.

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Titolare del sito Armando Riitano

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